MALATTIE CRONICHE
MALATTIE CRONICHE LEGATE ALL’INVECCHIAMENTO
Malattia di Alzheimer, Demenze, Osteoporosi, Diabete, Tumori e influenze di varia natura.
Per le persone con più di 65 anni si rinnova ogni anno, si raccomanda la vaccinazione anti-influenzale.
E' fondamentale l'attività motoria per gli anziani. Ormai da tempo un'attività motoria e una alimentazione equilibrata vengono comunemente associate a una forma di tutela della salute. Malattia di Alzheimer, cardiopatie, depressione, diabete e osteoporosi sono alcune delle patologie che sono più frequenti di altre dopo i 50 o i 60 anni. Gli esperti sottolineano anche quanto sia importante affidarsi alla diagnosi precoce, quando possibile, che si ottiene sottoponendosi a semplici esami, in ospedale o in ambulatorio. Rivolgersi al proprio medico di famiglia è un ottimo modo per avere consigli e suggerimenti mirati, anche sulla prevenzione, che spesso si basa su sane abitudini alimentari e su un corretto stile di vita.
Qui di seguito l’elenco delle malattie più diffuse tra gli anziani:
Il tumore al pancreas - Il segreto della longevità - Irsutismo - Artrite reumatoide - Malattie respiratorie croniche - Bronchite, asma ed enfisema - Cancro del colon retto - Scompenso cardiaco - Ictus cerebrale - Cardiopatie: angina pectoris e infarto - Arteriosclerosi - La malattia di Alzheimer - Il morbo di Parkinson - L’osteoporosi - La pressione alta o ipertensione - Tumore dell’ovaio e tumore dell’utero - Tumore della mammella - La depressione senile - Tumore della prostata, ipertrofia e prostatite - La glicemia e il diabete
Demenza
La demenza è una condizione che interessa dall’1 al 5 per cento della popolazione sopra i 65 anni di età, con una prevalenza che raddoppia poi ogni quattro anni. Per demenza si intende genericamente una condizione di disfunzione cronica e progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino di tutte le facoltà cognitive della persona. Ci sono due tipi di demenza, secondaria e primaria.
Definire una malattia neurodegenerativa è purtroppo ancora oggi piuttosto complicato, in quanto la degenerazione dei tessuti neurali è alla base di una serie di malattie non classificate solitamente come neurodegenerative (ad esempio la sclerosi multipla, l’epilessia, la schizofrenia, e perfino alcuni tumori). La difficoltà di effettuare una diagnosi precisa delle diverse forme di demenza è in parte perché i sintomi clinici sono spesso simili soprattutto nelle prime fasi della malattia, neuropatologici comuni che rendono quindi meno significative le differenze e le distinzioni nette.
Le demenze infatti sono il risultato di una complessa interazione tra fattori genetici, modificazioni neurochimiche, e interazioni con altre malattie. Gli studi istochimici hanno evidenziato che si manifestano anche degli ‘stati misti’, cioè delle situazioni in cui il malato presenta congiuntamente i sintomi caratteristici di più tipi di demenza.
Per tentare di fare un elenco, non esaustivo, le demenze identificate più comuni sono:
Numerosi studi epidemiologici, in gran parte di natura descrittiva, sono stati fatti dagli anni ’80 in poi. Si è notato che, nei paesi ricchi, la demenza interessa più le donne, ed è più bassa negli uomini e nella popolazione di origine africana o asiatica. Mentre in Europa è la malattia di Alzheimer a rappresentare la grande percentuale delle demenze. Il lavoro del 10/66 è stato quindi quello di mettere a punto, grazie a un’analisi in doppio cieco su 2885 persone in 25 paesi del sud del mondo, un sistema standard per la diagnosi delle demenze nei paesi poveri.
I fattori di rischio
Il tentativo di chiarire i fattori di rischio, particolarmente intenso nel caso dell’Alzheimer, è stato piuttosto deludente negli anni. Gli unici fattori di rischio per questa malattia identificati finora sono l’età, la presenza di un caso di demenza in famiglia, e alcuni fattori di predisposizione genetica. ica, una storia di danni cerebrali o di ferite alla testa. Fattori che sembrano interagire con la predisposizione genetica sono il sesso, le infezioni da herpes, una bassa concentrazione lipidi. Altri fattori che si stanno valutando sono una esposizione eccessiva ad anestetici, il diabete, l’alcol. In termini di effetti protettivi, invece, sono allo studio quelli delle terapie ormonali sostitutive mentre sono accertati quelli dei farmaci anti-infiammatori nonsteoridei.
Nel caso delle demenze vascolari, invece, il discorso è assai più complesso per la difficoltà a definire metodi diagnostici precisi e più accurati. Ne consegue che, a seconda del test diagnostico considerato, varia grandemente la diagnosi di demenza, con una prevalenza assai varia tra il 10 e il 50 per cento del totale delle demenze. I principali fattori di rischio identificati per la malattia sono l’età, il sesso maschile, l’ipertensione, un infarto miocardico, malattie coronariche, diabete, aterosclerosi generale, fumo, alte concentrazioni di lipidi, e una storia clinica di infarti.
Gli studi effettuati dimostrano chiaramente che il rischio totale di entrare in una condizione di demenza non è dato dalla semplice somma dei fattori di rischio ma piuttosto da una complessa interazione tra questi fattori, e che alcuni di questi fattori possono entrare in azione solo in presenza di altri. E’ quindi sempre più importante un approccio che si rifaccia a modelli predittivi complessi che incorporano diversi fattori di rischio interagenti tra di loro.
Trattamento
Non esiste ancora una modalità di trattamento efficace delle forme di demenza. In qualche caso trattamenti già utilizzati, derivano dall’uso di terapie ormonali sostitutive e di antinfiammatori non steoridei. Tuttavia, finora, le demenze rimangono malattie che non si possono curare. Inoltre, normalmente il trattamento inizia solo dopo la manifestazione dei sintomi clinici, che ancora oggi costituiscono la base più comune per la diagnosi, e quindi quando i danni neurali sono già consistenti. In generale, le persone affette da demenza hanno una aspettativa di vita più breve, stimata in circa otto anni dal momento della diagnosi (per l’Alzheimer il periodo si allunga fino ai 20 anni), anche se la morte sopraggiunge solitamente per altre complicazioni dello stato di salute dell’individuo.
Negli ultimi anni, si è anche riconosciuta l’importanza del ruolo svolto dai disturbi psichici e del comportamento nello sviluppo delle demenze. Stati di depressione, ansia, cambiamenti della personalità, irritabilità, sono tutti disturbi che accompagnano il progredire della demenza, e si manifestano nel 90 per cento dei pazienti. Nelle fasi precoci della demenza, addirittura, questa viene spesso scambiata per una condizione di depressione, e quindi esiste una stretta correlazione tra queste due forme di malattia mentale.
E’ oggi risaputo che almeno nel 40-50 per cento delle demenze si manifesta anche una forma depressiva, condizione che accelera la perdita di autonomia. Per questo, viene consigliato anche l’uso di antidepressivi. In ogni caso, prima ancora di un trattamento farmacologico, è importante intervenire sulla qualità della vita del paziente cercando di rimuovere tutte le condizioni che possono acuirne lo stato di depressione e di disturbo psichico. L’OMS, molti medici e le associazioni dei malati concordano infatti sul fatto che l’effetto principale delle demenze, prima ancora che neurologico, sia quello di alterare la qualità della vita del paziente e della sua famiglia.
Osteoporosi
Solo una donna su due e un uomo su cinque affetti da osteoporosi sà di esserlo. Il 50% delle persone che pensano di essere ammalate di osteoporosi non lo sono, mentre la metà di quelli realmente affetti dalla malattia non sa di esserlo.
E’ quanto emerge da uno studio pilota Le indicazioni che emergono, se proiettate alla realtà nazionale, sono abbastanza lontane da quelle fornite dalla fotografia scattata dall’ultima indagine ISTAT secondo cui si dichiara ammalato di questa patologia solo il 4,7% della popolazione totale e il 17,5% delle persone con oltre sessantacinque anni. Il risultato, invece, è piuttosto simile a quello del più recente studio epidemiologico multicentrico nazionale, ESOPO, secondo cui il 23% delle donne di oltre 40 anni e il 14% degli uomini con più di 60 anni è affetto da osteoporosi.
L’osteoporosi è una condizione caratterizzata dalla diminuzione della massa ossea e dal deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo: questo porta a un aumento della fragilità ossea e conseguente aumento del rischio di fratture, che si verificano soprattutto nelle zone del polso, delle vertebre e del femore prossimale.
E’ facile capire i costi sociali ed economici di questa patologia. “Le conseguenze legate alle fratture del femore sono molto pesanti – afferma Farchi – La mortalità è del 15-25%, la disabilità motoria colpisce più della metà dei pazienti nell’anno successivo alla frattura e solo il 30-40% di queste persone riprende autonomamente le attività quotidiane. Un problema simile è costituito dalle fratture vertebrali, spesso spontanee, la metà delle quali non sono diagnosticate e la cui incidenza è paragonabile a quelle del femore”. Nei prossimi anni, si stima che queste fratture aumenteranno di oltre la metà. Dati, questi che ci fanno riflettere sulla necessità che l’attività di prevenzione dell’osteoporosi sia tra quelle da favorire nell’agenda di Sanità pubblica.
Ed è per questo che la prevenzione svolge un ruolo fondamentale: prevenzione che nel caso nell’osteoporosi deve cominciare in età precoce, soprattutto nell’adolescenza, quando l’apporto di calcio attraverso gli alimenti viene assorbito dall’organismo e contribuisce effettivamente al consolidarsi della densità ossea, così come è necessario che giovani e bambini partecipino regolarmente ad attività fisiche sin dalla scuola materna e durante tutta la secondaria.
DIABETE
Il diabete è una malattia cronica caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) ed è dovuta a un’alterata quantità o funzione dell’insulina. L’insulina è l’ormone, prodotto dal pancreas, che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno.
Diabete tipo 1
Riguarda circa il 10% delle persone con diabete e in genere insorge nell’infanzia o nell’adolescenza. Nel diabete tipo 1, il pancreas non produce insulina a causa della distruzione delle cellule ß che producono questo ormone: è quindi necessario che essa venga iniettata ogni giorno e per tutta la vita. La velocità di distruzione delle ß-cellule è, comunque, piuttosto variabile, per cui l’insorgenza della malattia può avvenire rapidamente in alcune persone, solitamente nei bambini e negli adolescenti, e più lentamente negli adulti (in questi rari casi si parla di una forma particolare, detta LADA: Late Autommune Diabetes in Adults).
La causa del diabete tipo 1 è sconosciuta, ma caratteristica è la presenza nel sangue di anticorpi diretti contro antigeni presenti a livello delle cellule che producono insulina, detti ICA, GAD, IA-2, IA-2ß. Questo danno, che il sistema immunitario induce nei confronti delle cellule che producono insulina, potrebbe essere legato a fattori ambientali (tra i quali, sono stati chiamati in causa fattori dietetici) oppure a fattori genetici, individuati in una generica predisposizione a reagire contro fenomeni esterni, tra cui virus e batteri. Quest’ultima ipotesi si basa su studi condotti nei gemelli monozigoti (identici) che hanno permesso di dimostrare che il rischio che entrambi sviluppino diabete tipo 1 è del 30-40%, mentre scende al 5-10% nei fratelli non gemelli e del 2-5% nei figli. Si potrebbe, quindi, trasmettere una “predisposizione alla malattia” attraverso la trasmissione di geni che interessano la risposta immunitaria e che, in corso di una banale risposta del sistema immunitario a comuni agenti infettivi, causano una reazione anche verso le ß cellule del pancreas, con la produzione di anticorpi diretti contro di esse (auto-anticorpi). Questa alterata risposta immunitaria causa una progressiva distruzione delle cellule ß, per cui l'insulina non può più essere prodotta e si scatena così la malattia diabetica.
Per questo motivo, il diabete di tipo 1 viene classificato tra le malattie cosiddette “autoimmuni”, cioè dovute a una reazione immunitaria diretta contro l’organismo stesso. Tra i possibili agenti scatenanti la risposta immunitaria, sono stati proposti i virus della parotite (i cosiddetti "orecchioni"), il citomegalovirus, i virus Coxackie B, i virus dell'encefalomiocardite. Sono poi in studio, come detto, anche altri possibili agenti non infettivi, tra cui sostanze presenti nel latte.
Diabete tipo 2
È la forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia. La causa è ancora ignota, anche se è certo che il pancreas è in grado di produrre insulina, ma le cellule dell’organismo non riescono poi a utilizzarla. In genere, la malattia si manifesta dopo i 30-40 anni e numerosi fattori di rischio sono stati riconosciuti associarsi alla sua insorgenza. Tra questi: la familiarità per diabete, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’appartenenza ad alcune etnie. Riguardo la familiarità, circa il 40% dei diabetici di tipo 2 ha parenti di primo grado (genitori, fratelli) affetti dalla stessa malattia, mentre nei gemelli monozigoti la concordanza della malattia si avvicina al 100%, suggerendo una forte componente ereditaria per questo tipo di diabete.
Anche per il diabete tipo 2 esistono forme rare, dette MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), in cui il diabete di tipo 2 ha un esordio giovanile e sono stati identificati rari difetti genetici a livello dei meccanismi intracellulari di azione dell’insulina.
Il diabete tipo 2 in genere non viene diagnosticato per molti anni in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e inizialmente non è di grado severo al punto da dare i classici sintomi del diabete. Solitamente la diagnosi avviene casualmente o in concomitanza con una situazione di stress fisico, quale infezioni o interventi chirurgici.
Il rischio di sviluppare la malattia aumenta con l’età, con la presenza di obesità e con la mancanza di attività fisica: questa osservana consente di prevedere strategie di prevenzione “primaria”, cioè interventi in grado di prevenire l’insorgenza della malattia e che hanno il loro cardine nell’applicazione di uno stile di vita adeguato, che comprenda gli aspetti nutrizionali e l’esercizio fisico.
Diabete gestazionale
Si definisce diabete gestazionale ogni situazione in cui si misura un elevato livello di glucosio circolante per la prima volta in gravidanza. Questa condizione si verifica nel 4% circa delle gravidanze. La definizione prescinde dal tipo di trattamento utilizzato, sia che sia solo dietetico o che sia necessaria l’insulina e implica una maggiore frequenza di controlli per la gravida e per il feto.
Segni e sintomi
La sintomatologia di insorgenza della malattia dipende dal tipo di diabete. Nel caso del diabete tipo 1 di solito si assiste a un esordio acuto, spesso in relazione a un episodio febbrile, con sete (polidipsia), aumentata quantità di urine (poliuria), sensazione si stanchezza (astenia), perdita di peso, pelle secca, aumentata frequenza di infezioni.
Nel diabete tipo 2, invece, la sintomatologia è più sfumata e solitamente non consente una diagnosi rapida, per cui spesso la glicemia è elevata ma senza i segni clinici del diabete tipo 1.
Diagnosi
I criteri per la diagnosi di diabete sono: sintomi di diabete (poliuria, polidipsia, perdita di peso inspiegabile) associati a un valore di glicemia casuale, cioè indipendentemente dal momento della giornata, = 200 mg/dl, oppure: glicemia a digiuno = 126 mg/dl. Il digiuno è definito come mancata assunzione di cibo da almeno 8 ore. oppure: glicemia = 200 mg/dl durante una curva da carico (OGTT). Il test dovrebbe essere effettuato somministrando 75 g di glucosio.
Esistono, inoltre, situazioni cliniche in cui la glicemia non supera i livelli stabiliti per la definizione di diabete, ma che comunque non costituiscono una condizione di normalità. In questi casi si parla di Alterata Glicemia a Digiuno (IFG) quando i valori di glicemia a digiuno sono compresi tra 100 e 125 mg/dl e di Alterata Tolleranza al Glucosio (IGT) quando la glicemia due ore dopo il carico di glucosio è compresa tra 140 e 200 mg/dl. Si tratta di situazioni cosiddette di “pre-diabete”, che indicano un elevato rischio di sviluppare la malattia diabetica anche se non rappresentano una situazione di malattia. Spesso sono associati a sovrappeso, dislipidemia e/o ipertensione e si accompagnano a un maggior rischio di eventi cardiovascolari.
Complicanze del diabeteIl diabete può determinare complicanze acute o croniche. Le complicanze acute sono più frequenti nel diabete tipo 1 e sono in relazione alla carenza pressoché totale di insulina. In questi casi il paziente può andare incontro a coma chetoacidosico, dovuto ad accumulo di prodotti del metabolismo alterato, i chetoni, che causano perdita di coscienza, disidratazione e gravi alterazioni ematiche.
Nel diabete tipo 2 le complicanze acute sono piuttosto rare, mentre sono molto frequenti le complicanze croniche che riguardano diversi organi e tessuti, tra cui gli occhi, i reni, il cuore, i vasi sanguigni e i nervi periferici.
►Retinopatia diabetica: è un danno a carico dei piccoli vasi sanguigni che irrorano la retina, con perdita delle facoltà visive. Inoltre, le persone diabetiche hanno maggiori probabilità di sviluppare malattie oculari come glaucoma e cataratta
►Nefropatia diabetica: si tratta di una riduzione progressiva della funzione di filtro del rene che, se non trattata, può condurre all’insufficienza renale fino alla necessità di dialisi e/o trapianto del rene
►Malattie cardiovascolari: il rischio di malattie cardiovascolari è da 2 a 4 volte più alto nelle persone con diabete che nel resto della popolazione causando, nei Paesi industrializzati, oltre il 50% delle morti per diabete. Questo induce a considerare il rischio cardiovascolare nel paziente diabetico pari a quello assegnato a un paziente che ha avuto un evento cardiovascolare
►Neuropatia diabetica: è una delle complicazioni più frequenti e secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità si manifesta a livelli diversi nel 50% dei diabetici. Può causare perdita di sensibilità, dolore di diversa intensità e danni agli arti, con necessità di amputazione nei casi più gravi. Può comportare disfunzioni del cuore, degli occhi, dello stomaco ed è una delle principali cause di impotenza maschile
►Piede diabetico: le modificazioni della struttura dei vasi sanguigni e dei nervi possono causare ulcerazioni e problemi a livello degli arti inferiori, soprattutto del piede, a causa dei carichi che sopporta. Questo può rendere necessaria l'amputazione degli arti e statisticamente costituisce la prima causa di amputazione degli arti inferiori di origine non traumatica
►Complicanze in gravidanza: nelle donne in gravidanza, il diabete può determinare conseguenze avverse sul feto, da malformazioni congenite a un elevato peso alla nascita, fino a un alto rischio di mortalità perinatale.
Fattori di rischio
Le complicanze croniche del diabete possono essere prevenute o se ne può rallentare la progressione attraverso uno stretto controllo di tutti i fattori di rischio correlati.
Pressione sanguigna: Nei diabetici c’è un aumentato rischio di malattia cardiovascolari, quindi il controllo della pressione sanguigna è particolarmente importante, in quanto livelli elevati di pressione rappresentano già un fattore di rischio. Il controllo della pressione sanguigna può prevenire l’insorgenza di patologie cardiovascolari (malattie cardiache e ictus) e di patologie a carico del microcircolo (occhi, reni e sistema nervoso) controllo dei lipidi nel sangue. Anche le dislipidemie rappresentando un aggiuntivo fattore di rischio per le patologie cardiovascolari. Un adeguato controllo del colesterolo e dei lipidi (HDL, LDL e trigliceridi) può infatti ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari, in particolare nei pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare. L’elevata frequenza di complicanze vascolari impone uno stretto monitoraggio degli organi bersaglio (occhi, reni e arti inferiori). Per questo, è necessario che le persone con diabete si sottopongano a periodiche visite di controllo, anche in assenza di sintomi.
Interventi terapeutici
La terapia della malattia diabetica ha come cardine l’attuazione di uno stile di vita adeguato. Per stile di vita si intendono le abitudini alimentari, l’attività fisica e l’astensione dal fumo. La dieta del soggetto con diabete ha l’obiettivo di ridurre il rischio di complicanze del diabete e di malattie cardiovascolari attraverso il mantenimento di valori di glucosio e lipidi plasmatici e dei livelli della pressione arteriosa il più possibile vicini alla normalità.
In linea di massima, si raccomanda che la dieta includa carboidrati, provenienti da frutta, vegetali, grano, legumi e latte scremato, non inferiori ai 130 g/giorno ma controllando che siano assunti in maniera equilibrata, attraverso la loro misurazione e l’uso alternativo. Evitare l’uso di saccarosio, sostituibile con dolcificanti. Come per la popolazione generale, si raccomanda di consumare cibi contenenti fibre. Riguardo i grassi, è importante limitare il loro apporto a <7% delle calorie totali giornaliere, con particolare limitazione ai grassi saturi e al colesterolo.
Un’attività fisica di tipo aerobico e di grado moderato per almeno 150 minuti a settimana oppure di tipo più intenso per 90 minuti a settimana è raccomandata per migliorare il controllo glicemico e mantenere il peso corporeo. Dovrebbe essere distribuita in almeno tre volte a settimana e con non più di due giorni consecutivi senza attività. Come per la popolazione generale si consiglia di non fumare, e a tale scopo dovrebbe essere prevista una forma di sostegno alla cessazione del fumo come facente parte del trattamento del diabete. I diabetici tipo 1 hanno necessità di regolare in maniera più stretta la terapia insulinica all’apporto dietetico e all’attività fisica, mentre per i diabetici tipo 2, che in genere sono anche sovrappeso o francamente obesi, assume maggior importanza un adeguato stile di vita che comprenda riduzione dell’apporto calorico, soprattutto dai grassi, e aumento dell’attività fisica per migliorare glicemia, dislipidemia e livelli della pressione arteriosa.
TUMORI
I tumori, nonostante il meccanismo generale di origine sia unico, possono manifestare una gamma molto vasta di evoluzioni e sintomatologie. In tutti però è costante un aumento del numero di cellule cancerose, dovuto alla maggiore velocità di riproduzione cellulare, per cui un maggior numero di cellule tumorali si moltiplica ed un minor numero di esse muore, mentre quelle che sopravvivono continuano a moltiplicarsi. Di solito la crescita di un tumore segue una legge geometrica: è molto lenta all'inizio, ma accelera all'aumentare della massa del tumore. La dimensione critica di un tumore è di circa 1 centimetro cubico: raggiunta tale dimensione il tumore inizia a crescere molto velocemente e a dare luogo ai primi sintomi, e diventa rilevabile con visite mediche e analisi (marker tumorali presenti nel sangue); spesso però i sintomi iniziali vengono ignorati o sottovalutati.
Carcinoma squamoso della laringe (ben differenziato).
La neoplasia può avere origine benigna o maligna a seconda delle caratteristiche delle cellule neoplastiche. In particolare si chiama cancro quando ha caratteristiche infiltranti (cioè si infiltra negli organi adiacenti), aspetto morfologico molto dissimile dalla cellula di base e presenta la caratteristica di recidivare molto spesso dopo resezione chirurgica. Si definisce invece tumore quando ha caratteristiche non infiltranti ma espansive (provoca quindi dolore da compressione), aspetto morfologico non molto dissimile dalla cellula di base e presenta un basso tasso di recidiva dopo asportazione chirurgica.
Il termine tumore, che letteralmente significa tumefazione, è stato coniato sulla base dell'aspetto macroscopico della maggior parte dei tumori che si presentano molto frequentemente, ma non sempre, con una massa rilevante sul sito anatomico di origine. Il termine neoplasia, che letteralmente significa nuova formazione, è sinonimo del precedente ma prende in considerazione, più che l'aspetto esteriore della massa, il contenuto cellulare della stessa che è costituito da cellule di "nuova formazione".
Infine il termine cancro (granchio) è stato coniato sulla base dell'osservazione che le cellule neoplastiche nel corso della loro moltiplicazione formano propaggini che avvinghiano le cellule normali vicine e le distruggono, così come il crostaceo fa con le sue chele nei riguardi della preda.
La branca della medicina che si occupa di studiare i tumori sotto l'aspetto eziopatogenetico, diagnostico e terapeutico è definita oncologia.
Terapie
Il problema principale nella terapia dei tumori è che il sistema immunitario del paziente non distingue le cellule tumorali da quelle sane, e quindi non reagisce alla loro presenza, o nei casi in cui reagisce non lo fa con sufficiente energia. Inoltre poiché strutturalmente le cellule tumorali sono ancora, di massima, cellule umane, anche gli antibiotici e gli antivirali non hanno alcun effetto su di esse: non solo, ma qualunque farmaco studiato per agire contro cellule tumorali deve essere testato con estrema attenzione per verificare che non agisca anche sulle cellule normali dell'organismo. La grande velocità di riproduzione delle cellule cancerose le rende però molto più vulnerabili alle radiazioni rispetto ai tessuti sani: questa debolezza viene sfruttata per curare molti tipi di tumore solido con la radioterapia (bombardamento con raggi gamma) nel tentativo di uccidere più cellule maligne possibili.
La chemioterapia invece sfrutta la sensibilità specifica dei singoli tumori a determinate sostanze, e per ogni paziente viene studiata una miscela personalizzata di più farmaci. Quasi sempre in questo "cocktail su misura" sono presenti uno o più inibitori della mitosi, come il tassolo e suoi derivati, per ostacolare la proliferazione cellulare: sono questi i responsabili della alopecia (perdita dei capelli e dei peli) che affligge i pazienti sottoposti a chemioterapia.
La terapia del cancro ha, come obiettivo ideale, l'eliminazione dall'organismo di tutte le cellule tumorali. Quando questo obiettivo viene raggiunto, si ottiene la guarigione completa. Nonostante un grande sforzo di ricerca, tale obiettivo non viene raggiunto in molti casi; il ruolo delle cure mediche resta comunque importante anche nei casi in cui la guarigione completa non venga raggiunta, perfino nei casi in cui le cure consistono nella sola terapia palliativa, il cui importantissimo obiettivo è il sollievo di sintomi, in particolare del dolore, ed il miglioramento della qualità della vita del malato.
In generale, la terapia del cancro - per quanto riguarda l'obiettivo di guarire l'organismo malato, di ridurre l'estensione della malattia ottenendo una regressione parziale, o di rallentarne la progressione - si basa sull'applicazione di una serie di tecniche diverse integrate fra di loro, con protocolli specifici per lo specifico tipo di cancro e per le caratteristiche del paziente, ferma restando la libertà di scelta del paziente fra i diversi approcci possibili e il suo consenso informato al protocollo proposto.
Poiché il cancro colpisce più frequentemente la popolazione anziana, in molti casi la regressione parziale o anche il semplice rallentamento della progressione equivale, in sostanza, alla guarigione completa, in quanto libera il malato dai sintomi di malattia per tutto il suo periodo di vita residua.
Le tecniche utilizzate sono:
Malattia di Alzheimer, Demenze, Osteoporosi, Diabete, Tumori e influenze di varia natura.
Per le persone con più di 65 anni si rinnova ogni anno, si raccomanda la vaccinazione anti-influenzale.
E' fondamentale l'attività motoria per gli anziani. Ormai da tempo un'attività motoria e una alimentazione equilibrata vengono comunemente associate a una forma di tutela della salute. Malattia di Alzheimer, cardiopatie, depressione, diabete e osteoporosi sono alcune delle patologie che sono più frequenti di altre dopo i 50 o i 60 anni. Gli esperti sottolineano anche quanto sia importante affidarsi alla diagnosi precoce, quando possibile, che si ottiene sottoponendosi a semplici esami, in ospedale o in ambulatorio. Rivolgersi al proprio medico di famiglia è un ottimo modo per avere consigli e suggerimenti mirati, anche sulla prevenzione, che spesso si basa su sane abitudini alimentari e su un corretto stile di vita.
Qui di seguito l’elenco delle malattie più diffuse tra gli anziani:
Il tumore al pancreas - Il segreto della longevità - Irsutismo - Artrite reumatoide - Malattie respiratorie croniche - Bronchite, asma ed enfisema - Cancro del colon retto - Scompenso cardiaco - Ictus cerebrale - Cardiopatie: angina pectoris e infarto - Arteriosclerosi - La malattia di Alzheimer - Il morbo di Parkinson - L’osteoporosi - La pressione alta o ipertensione - Tumore dell’ovaio e tumore dell’utero - Tumore della mammella - La depressione senile - Tumore della prostata, ipertrofia e prostatite - La glicemia e il diabete
Demenza
La demenza è una condizione che interessa dall’1 al 5 per cento della popolazione sopra i 65 anni di età, con una prevalenza che raddoppia poi ogni quattro anni. Per demenza si intende genericamente una condizione di disfunzione cronica e progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino di tutte le facoltà cognitive della persona. Ci sono due tipi di demenza, secondaria e primaria.
Definire una malattia neurodegenerativa è purtroppo ancora oggi piuttosto complicato, in quanto la degenerazione dei tessuti neurali è alla base di una serie di malattie non classificate solitamente come neurodegenerative (ad esempio la sclerosi multipla, l’epilessia, la schizofrenia, e perfino alcuni tumori). La difficoltà di effettuare una diagnosi precisa delle diverse forme di demenza è in parte perché i sintomi clinici sono spesso simili soprattutto nelle prime fasi della malattia, neuropatologici comuni che rendono quindi meno significative le differenze e le distinzioni nette.
Le demenze infatti sono il risultato di una complessa interazione tra fattori genetici, modificazioni neurochimiche, e interazioni con altre malattie. Gli studi istochimici hanno evidenziato che si manifestano anche degli ‘stati misti’, cioè delle situazioni in cui il malato presenta congiuntamente i sintomi caratteristici di più tipi di demenza.
Per tentare di fare un elenco, non esaustivo, le demenze identificate più comuni sono:
- La malattia di Alzheimer
- Il morbo di Parkinson
- La malattia di Creutzfield-Jacob
- La demenza vascolare
- La demenza con i corpi di Lewy
- La demenza frontotemporale
- La paralisi sopranucleare progressiva
Numerosi studi epidemiologici, in gran parte di natura descrittiva, sono stati fatti dagli anni ’80 in poi. Si è notato che, nei paesi ricchi, la demenza interessa più le donne, ed è più bassa negli uomini e nella popolazione di origine africana o asiatica. Mentre in Europa è la malattia di Alzheimer a rappresentare la grande percentuale delle demenze. Il lavoro del 10/66 è stato quindi quello di mettere a punto, grazie a un’analisi in doppio cieco su 2885 persone in 25 paesi del sud del mondo, un sistema standard per la diagnosi delle demenze nei paesi poveri.
I fattori di rischio
Il tentativo di chiarire i fattori di rischio, particolarmente intenso nel caso dell’Alzheimer, è stato piuttosto deludente negli anni. Gli unici fattori di rischio per questa malattia identificati finora sono l’età, la presenza di un caso di demenza in famiglia, e alcuni fattori di predisposizione genetica. ica, una storia di danni cerebrali o di ferite alla testa. Fattori che sembrano interagire con la predisposizione genetica sono il sesso, le infezioni da herpes, una bassa concentrazione lipidi. Altri fattori che si stanno valutando sono una esposizione eccessiva ad anestetici, il diabete, l’alcol. In termini di effetti protettivi, invece, sono allo studio quelli delle terapie ormonali sostitutive mentre sono accertati quelli dei farmaci anti-infiammatori nonsteoridei.
Nel caso delle demenze vascolari, invece, il discorso è assai più complesso per la difficoltà a definire metodi diagnostici precisi e più accurati. Ne consegue che, a seconda del test diagnostico considerato, varia grandemente la diagnosi di demenza, con una prevalenza assai varia tra il 10 e il 50 per cento del totale delle demenze. I principali fattori di rischio identificati per la malattia sono l’età, il sesso maschile, l’ipertensione, un infarto miocardico, malattie coronariche, diabete, aterosclerosi generale, fumo, alte concentrazioni di lipidi, e una storia clinica di infarti.
Gli studi effettuati dimostrano chiaramente che il rischio totale di entrare in una condizione di demenza non è dato dalla semplice somma dei fattori di rischio ma piuttosto da una complessa interazione tra questi fattori, e che alcuni di questi fattori possono entrare in azione solo in presenza di altri. E’ quindi sempre più importante un approccio che si rifaccia a modelli predittivi complessi che incorporano diversi fattori di rischio interagenti tra di loro.
Trattamento
Non esiste ancora una modalità di trattamento efficace delle forme di demenza. In qualche caso trattamenti già utilizzati, derivano dall’uso di terapie ormonali sostitutive e di antinfiammatori non steoridei. Tuttavia, finora, le demenze rimangono malattie che non si possono curare. Inoltre, normalmente il trattamento inizia solo dopo la manifestazione dei sintomi clinici, che ancora oggi costituiscono la base più comune per la diagnosi, e quindi quando i danni neurali sono già consistenti. In generale, le persone affette da demenza hanno una aspettativa di vita più breve, stimata in circa otto anni dal momento della diagnosi (per l’Alzheimer il periodo si allunga fino ai 20 anni), anche se la morte sopraggiunge solitamente per altre complicazioni dello stato di salute dell’individuo.
Negli ultimi anni, si è anche riconosciuta l’importanza del ruolo svolto dai disturbi psichici e del comportamento nello sviluppo delle demenze. Stati di depressione, ansia, cambiamenti della personalità, irritabilità, sono tutti disturbi che accompagnano il progredire della demenza, e si manifestano nel 90 per cento dei pazienti. Nelle fasi precoci della demenza, addirittura, questa viene spesso scambiata per una condizione di depressione, e quindi esiste una stretta correlazione tra queste due forme di malattia mentale.
E’ oggi risaputo che almeno nel 40-50 per cento delle demenze si manifesta anche una forma depressiva, condizione che accelera la perdita di autonomia. Per questo, viene consigliato anche l’uso di antidepressivi. In ogni caso, prima ancora di un trattamento farmacologico, è importante intervenire sulla qualità della vita del paziente cercando di rimuovere tutte le condizioni che possono acuirne lo stato di depressione e di disturbo psichico. L’OMS, molti medici e le associazioni dei malati concordano infatti sul fatto che l’effetto principale delle demenze, prima ancora che neurologico, sia quello di alterare la qualità della vita del paziente e della sua famiglia.
Osteoporosi
Solo una donna su due e un uomo su cinque affetti da osteoporosi sà di esserlo. Il 50% delle persone che pensano di essere ammalate di osteoporosi non lo sono, mentre la metà di quelli realmente affetti dalla malattia non sa di esserlo.
E’ quanto emerge da uno studio pilota Le indicazioni che emergono, se proiettate alla realtà nazionale, sono abbastanza lontane da quelle fornite dalla fotografia scattata dall’ultima indagine ISTAT secondo cui si dichiara ammalato di questa patologia solo il 4,7% della popolazione totale e il 17,5% delle persone con oltre sessantacinque anni. Il risultato, invece, è piuttosto simile a quello del più recente studio epidemiologico multicentrico nazionale, ESOPO, secondo cui il 23% delle donne di oltre 40 anni e il 14% degli uomini con più di 60 anni è affetto da osteoporosi.
L’osteoporosi è una condizione caratterizzata dalla diminuzione della massa ossea e dal deterioramento della microarchitettura del tessuto osseo: questo porta a un aumento della fragilità ossea e conseguente aumento del rischio di fratture, che si verificano soprattutto nelle zone del polso, delle vertebre e del femore prossimale.
E’ facile capire i costi sociali ed economici di questa patologia. “Le conseguenze legate alle fratture del femore sono molto pesanti – afferma Farchi – La mortalità è del 15-25%, la disabilità motoria colpisce più della metà dei pazienti nell’anno successivo alla frattura e solo il 30-40% di queste persone riprende autonomamente le attività quotidiane. Un problema simile è costituito dalle fratture vertebrali, spesso spontanee, la metà delle quali non sono diagnosticate e la cui incidenza è paragonabile a quelle del femore”. Nei prossimi anni, si stima che queste fratture aumenteranno di oltre la metà. Dati, questi che ci fanno riflettere sulla necessità che l’attività di prevenzione dell’osteoporosi sia tra quelle da favorire nell’agenda di Sanità pubblica.
Ed è per questo che la prevenzione svolge un ruolo fondamentale: prevenzione che nel caso nell’osteoporosi deve cominciare in età precoce, soprattutto nell’adolescenza, quando l’apporto di calcio attraverso gli alimenti viene assorbito dall’organismo e contribuisce effettivamente al consolidarsi della densità ossea, così come è necessario che giovani e bambini partecipino regolarmente ad attività fisiche sin dalla scuola materna e durante tutta la secondaria.
DIABETE
Il diabete è una malattia cronica caratterizzata dalla presenza di elevati livelli di glucosio nel sangue (iperglicemia) ed è dovuta a un’alterata quantità o funzione dell’insulina. L’insulina è l’ormone, prodotto dal pancreas, che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel circolo sanguigno.
Diabete tipo 1
Riguarda circa il 10% delle persone con diabete e in genere insorge nell’infanzia o nell’adolescenza. Nel diabete tipo 1, il pancreas non produce insulina a causa della distruzione delle cellule ß che producono questo ormone: è quindi necessario che essa venga iniettata ogni giorno e per tutta la vita. La velocità di distruzione delle ß-cellule è, comunque, piuttosto variabile, per cui l’insorgenza della malattia può avvenire rapidamente in alcune persone, solitamente nei bambini e negli adolescenti, e più lentamente negli adulti (in questi rari casi si parla di una forma particolare, detta LADA: Late Autommune Diabetes in Adults).
La causa del diabete tipo 1 è sconosciuta, ma caratteristica è la presenza nel sangue di anticorpi diretti contro antigeni presenti a livello delle cellule che producono insulina, detti ICA, GAD, IA-2, IA-2ß. Questo danno, che il sistema immunitario induce nei confronti delle cellule che producono insulina, potrebbe essere legato a fattori ambientali (tra i quali, sono stati chiamati in causa fattori dietetici) oppure a fattori genetici, individuati in una generica predisposizione a reagire contro fenomeni esterni, tra cui virus e batteri. Quest’ultima ipotesi si basa su studi condotti nei gemelli monozigoti (identici) che hanno permesso di dimostrare che il rischio che entrambi sviluppino diabete tipo 1 è del 30-40%, mentre scende al 5-10% nei fratelli non gemelli e del 2-5% nei figli. Si potrebbe, quindi, trasmettere una “predisposizione alla malattia” attraverso la trasmissione di geni che interessano la risposta immunitaria e che, in corso di una banale risposta del sistema immunitario a comuni agenti infettivi, causano una reazione anche verso le ß cellule del pancreas, con la produzione di anticorpi diretti contro di esse (auto-anticorpi). Questa alterata risposta immunitaria causa una progressiva distruzione delle cellule ß, per cui l'insulina non può più essere prodotta e si scatena così la malattia diabetica.
Per questo motivo, il diabete di tipo 1 viene classificato tra le malattie cosiddette “autoimmuni”, cioè dovute a una reazione immunitaria diretta contro l’organismo stesso. Tra i possibili agenti scatenanti la risposta immunitaria, sono stati proposti i virus della parotite (i cosiddetti "orecchioni"), il citomegalovirus, i virus Coxackie B, i virus dell'encefalomiocardite. Sono poi in studio, come detto, anche altri possibili agenti non infettivi, tra cui sostanze presenti nel latte.
Diabete tipo 2
È la forma più comune di diabete e rappresenta circa il 90% dei casi di questa malattia. La causa è ancora ignota, anche se è certo che il pancreas è in grado di produrre insulina, ma le cellule dell’organismo non riescono poi a utilizzarla. In genere, la malattia si manifesta dopo i 30-40 anni e numerosi fattori di rischio sono stati riconosciuti associarsi alla sua insorgenza. Tra questi: la familiarità per diabete, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’appartenenza ad alcune etnie. Riguardo la familiarità, circa il 40% dei diabetici di tipo 2 ha parenti di primo grado (genitori, fratelli) affetti dalla stessa malattia, mentre nei gemelli monozigoti la concordanza della malattia si avvicina al 100%, suggerendo una forte componente ereditaria per questo tipo di diabete.
Anche per il diabete tipo 2 esistono forme rare, dette MODY (Maturity Onset Diabetes of the Young), in cui il diabete di tipo 2 ha un esordio giovanile e sono stati identificati rari difetti genetici a livello dei meccanismi intracellulari di azione dell’insulina.
Il diabete tipo 2 in genere non viene diagnosticato per molti anni in quanto l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e inizialmente non è di grado severo al punto da dare i classici sintomi del diabete. Solitamente la diagnosi avviene casualmente o in concomitanza con una situazione di stress fisico, quale infezioni o interventi chirurgici.
Il rischio di sviluppare la malattia aumenta con l’età, con la presenza di obesità e con la mancanza di attività fisica: questa osservana consente di prevedere strategie di prevenzione “primaria”, cioè interventi in grado di prevenire l’insorgenza della malattia e che hanno il loro cardine nell’applicazione di uno stile di vita adeguato, che comprenda gli aspetti nutrizionali e l’esercizio fisico.
Diabete gestazionale
Si definisce diabete gestazionale ogni situazione in cui si misura un elevato livello di glucosio circolante per la prima volta in gravidanza. Questa condizione si verifica nel 4% circa delle gravidanze. La definizione prescinde dal tipo di trattamento utilizzato, sia che sia solo dietetico o che sia necessaria l’insulina e implica una maggiore frequenza di controlli per la gravida e per il feto.
Segni e sintomi
La sintomatologia di insorgenza della malattia dipende dal tipo di diabete. Nel caso del diabete tipo 1 di solito si assiste a un esordio acuto, spesso in relazione a un episodio febbrile, con sete (polidipsia), aumentata quantità di urine (poliuria), sensazione si stanchezza (astenia), perdita di peso, pelle secca, aumentata frequenza di infezioni.
Nel diabete tipo 2, invece, la sintomatologia è più sfumata e solitamente non consente una diagnosi rapida, per cui spesso la glicemia è elevata ma senza i segni clinici del diabete tipo 1.
Diagnosi
I criteri per la diagnosi di diabete sono: sintomi di diabete (poliuria, polidipsia, perdita di peso inspiegabile) associati a un valore di glicemia casuale, cioè indipendentemente dal momento della giornata, = 200 mg/dl, oppure: glicemia a digiuno = 126 mg/dl. Il digiuno è definito come mancata assunzione di cibo da almeno 8 ore. oppure: glicemia = 200 mg/dl durante una curva da carico (OGTT). Il test dovrebbe essere effettuato somministrando 75 g di glucosio.
Esistono, inoltre, situazioni cliniche in cui la glicemia non supera i livelli stabiliti per la definizione di diabete, ma che comunque non costituiscono una condizione di normalità. In questi casi si parla di Alterata Glicemia a Digiuno (IFG) quando i valori di glicemia a digiuno sono compresi tra 100 e 125 mg/dl e di Alterata Tolleranza al Glucosio (IGT) quando la glicemia due ore dopo il carico di glucosio è compresa tra 140 e 200 mg/dl. Si tratta di situazioni cosiddette di “pre-diabete”, che indicano un elevato rischio di sviluppare la malattia diabetica anche se non rappresentano una situazione di malattia. Spesso sono associati a sovrappeso, dislipidemia e/o ipertensione e si accompagnano a un maggior rischio di eventi cardiovascolari.
Complicanze del diabeteIl diabete può determinare complicanze acute o croniche. Le complicanze acute sono più frequenti nel diabete tipo 1 e sono in relazione alla carenza pressoché totale di insulina. In questi casi il paziente può andare incontro a coma chetoacidosico, dovuto ad accumulo di prodotti del metabolismo alterato, i chetoni, che causano perdita di coscienza, disidratazione e gravi alterazioni ematiche.
Nel diabete tipo 2 le complicanze acute sono piuttosto rare, mentre sono molto frequenti le complicanze croniche che riguardano diversi organi e tessuti, tra cui gli occhi, i reni, il cuore, i vasi sanguigni e i nervi periferici.
►Retinopatia diabetica: è un danno a carico dei piccoli vasi sanguigni che irrorano la retina, con perdita delle facoltà visive. Inoltre, le persone diabetiche hanno maggiori probabilità di sviluppare malattie oculari come glaucoma e cataratta
►Nefropatia diabetica: si tratta di una riduzione progressiva della funzione di filtro del rene che, se non trattata, può condurre all’insufficienza renale fino alla necessità di dialisi e/o trapianto del rene
►Malattie cardiovascolari: il rischio di malattie cardiovascolari è da 2 a 4 volte più alto nelle persone con diabete che nel resto della popolazione causando, nei Paesi industrializzati, oltre il 50% delle morti per diabete. Questo induce a considerare il rischio cardiovascolare nel paziente diabetico pari a quello assegnato a un paziente che ha avuto un evento cardiovascolare
►Neuropatia diabetica: è una delle complicazioni più frequenti e secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità si manifesta a livelli diversi nel 50% dei diabetici. Può causare perdita di sensibilità, dolore di diversa intensità e danni agli arti, con necessità di amputazione nei casi più gravi. Può comportare disfunzioni del cuore, degli occhi, dello stomaco ed è una delle principali cause di impotenza maschile
►Piede diabetico: le modificazioni della struttura dei vasi sanguigni e dei nervi possono causare ulcerazioni e problemi a livello degli arti inferiori, soprattutto del piede, a causa dei carichi che sopporta. Questo può rendere necessaria l'amputazione degli arti e statisticamente costituisce la prima causa di amputazione degli arti inferiori di origine non traumatica
►Complicanze in gravidanza: nelle donne in gravidanza, il diabete può determinare conseguenze avverse sul feto, da malformazioni congenite a un elevato peso alla nascita, fino a un alto rischio di mortalità perinatale.
Fattori di rischio
Le complicanze croniche del diabete possono essere prevenute o se ne può rallentare la progressione attraverso uno stretto controllo di tutti i fattori di rischio correlati.
Pressione sanguigna: Nei diabetici c’è un aumentato rischio di malattia cardiovascolari, quindi il controllo della pressione sanguigna è particolarmente importante, in quanto livelli elevati di pressione rappresentano già un fattore di rischio. Il controllo della pressione sanguigna può prevenire l’insorgenza di patologie cardiovascolari (malattie cardiache e ictus) e di patologie a carico del microcircolo (occhi, reni e sistema nervoso) controllo dei lipidi nel sangue. Anche le dislipidemie rappresentando un aggiuntivo fattore di rischio per le patologie cardiovascolari. Un adeguato controllo del colesterolo e dei lipidi (HDL, LDL e trigliceridi) può infatti ridurre l’insorgenza di complicanze cardiovascolari, in particolare nei pazienti che hanno già avuto un evento cardiovascolare. L’elevata frequenza di complicanze vascolari impone uno stretto monitoraggio degli organi bersaglio (occhi, reni e arti inferiori). Per questo, è necessario che le persone con diabete si sottopongano a periodiche visite di controllo, anche in assenza di sintomi.
Interventi terapeutici
La terapia della malattia diabetica ha come cardine l’attuazione di uno stile di vita adeguato. Per stile di vita si intendono le abitudini alimentari, l’attività fisica e l’astensione dal fumo. La dieta del soggetto con diabete ha l’obiettivo di ridurre il rischio di complicanze del diabete e di malattie cardiovascolari attraverso il mantenimento di valori di glucosio e lipidi plasmatici e dei livelli della pressione arteriosa il più possibile vicini alla normalità.
In linea di massima, si raccomanda che la dieta includa carboidrati, provenienti da frutta, vegetali, grano, legumi e latte scremato, non inferiori ai 130 g/giorno ma controllando che siano assunti in maniera equilibrata, attraverso la loro misurazione e l’uso alternativo. Evitare l’uso di saccarosio, sostituibile con dolcificanti. Come per la popolazione generale, si raccomanda di consumare cibi contenenti fibre. Riguardo i grassi, è importante limitare il loro apporto a <7% delle calorie totali giornaliere, con particolare limitazione ai grassi saturi e al colesterolo.
Un’attività fisica di tipo aerobico e di grado moderato per almeno 150 minuti a settimana oppure di tipo più intenso per 90 minuti a settimana è raccomandata per migliorare il controllo glicemico e mantenere il peso corporeo. Dovrebbe essere distribuita in almeno tre volte a settimana e con non più di due giorni consecutivi senza attività. Come per la popolazione generale si consiglia di non fumare, e a tale scopo dovrebbe essere prevista una forma di sostegno alla cessazione del fumo come facente parte del trattamento del diabete. I diabetici tipo 1 hanno necessità di regolare in maniera più stretta la terapia insulinica all’apporto dietetico e all’attività fisica, mentre per i diabetici tipo 2, che in genere sono anche sovrappeso o francamente obesi, assume maggior importanza un adeguato stile di vita che comprenda riduzione dell’apporto calorico, soprattutto dai grassi, e aumento dell’attività fisica per migliorare glicemia, dislipidemia e livelli della pressione arteriosa.
TUMORI
I tumori, nonostante il meccanismo generale di origine sia unico, possono manifestare una gamma molto vasta di evoluzioni e sintomatologie. In tutti però è costante un aumento del numero di cellule cancerose, dovuto alla maggiore velocità di riproduzione cellulare, per cui un maggior numero di cellule tumorali si moltiplica ed un minor numero di esse muore, mentre quelle che sopravvivono continuano a moltiplicarsi. Di solito la crescita di un tumore segue una legge geometrica: è molto lenta all'inizio, ma accelera all'aumentare della massa del tumore. La dimensione critica di un tumore è di circa 1 centimetro cubico: raggiunta tale dimensione il tumore inizia a crescere molto velocemente e a dare luogo ai primi sintomi, e diventa rilevabile con visite mediche e analisi (marker tumorali presenti nel sangue); spesso però i sintomi iniziali vengono ignorati o sottovalutati.
Carcinoma squamoso della laringe (ben differenziato).
La neoplasia può avere origine benigna o maligna a seconda delle caratteristiche delle cellule neoplastiche. In particolare si chiama cancro quando ha caratteristiche infiltranti (cioè si infiltra negli organi adiacenti), aspetto morfologico molto dissimile dalla cellula di base e presenta la caratteristica di recidivare molto spesso dopo resezione chirurgica. Si definisce invece tumore quando ha caratteristiche non infiltranti ma espansive (provoca quindi dolore da compressione), aspetto morfologico non molto dissimile dalla cellula di base e presenta un basso tasso di recidiva dopo asportazione chirurgica.
Il termine tumore, che letteralmente significa tumefazione, è stato coniato sulla base dell'aspetto macroscopico della maggior parte dei tumori che si presentano molto frequentemente, ma non sempre, con una massa rilevante sul sito anatomico di origine. Il termine neoplasia, che letteralmente significa nuova formazione, è sinonimo del precedente ma prende in considerazione, più che l'aspetto esteriore della massa, il contenuto cellulare della stessa che è costituito da cellule di "nuova formazione".
Infine il termine cancro (granchio) è stato coniato sulla base dell'osservazione che le cellule neoplastiche nel corso della loro moltiplicazione formano propaggini che avvinghiano le cellule normali vicine e le distruggono, così come il crostaceo fa con le sue chele nei riguardi della preda.
La branca della medicina che si occupa di studiare i tumori sotto l'aspetto eziopatogenetico, diagnostico e terapeutico è definita oncologia.
Terapie
Il problema principale nella terapia dei tumori è che il sistema immunitario del paziente non distingue le cellule tumorali da quelle sane, e quindi non reagisce alla loro presenza, o nei casi in cui reagisce non lo fa con sufficiente energia. Inoltre poiché strutturalmente le cellule tumorali sono ancora, di massima, cellule umane, anche gli antibiotici e gli antivirali non hanno alcun effetto su di esse: non solo, ma qualunque farmaco studiato per agire contro cellule tumorali deve essere testato con estrema attenzione per verificare che non agisca anche sulle cellule normali dell'organismo. La grande velocità di riproduzione delle cellule cancerose le rende però molto più vulnerabili alle radiazioni rispetto ai tessuti sani: questa debolezza viene sfruttata per curare molti tipi di tumore solido con la radioterapia (bombardamento con raggi gamma) nel tentativo di uccidere più cellule maligne possibili.
La chemioterapia invece sfrutta la sensibilità specifica dei singoli tumori a determinate sostanze, e per ogni paziente viene studiata una miscela personalizzata di più farmaci. Quasi sempre in questo "cocktail su misura" sono presenti uno o più inibitori della mitosi, come il tassolo e suoi derivati, per ostacolare la proliferazione cellulare: sono questi i responsabili della alopecia (perdita dei capelli e dei peli) che affligge i pazienti sottoposti a chemioterapia.
La terapia del cancro ha, come obiettivo ideale, l'eliminazione dall'organismo di tutte le cellule tumorali. Quando questo obiettivo viene raggiunto, si ottiene la guarigione completa. Nonostante un grande sforzo di ricerca, tale obiettivo non viene raggiunto in molti casi; il ruolo delle cure mediche resta comunque importante anche nei casi in cui la guarigione completa non venga raggiunta, perfino nei casi in cui le cure consistono nella sola terapia palliativa, il cui importantissimo obiettivo è il sollievo di sintomi, in particolare del dolore, ed il miglioramento della qualità della vita del malato.
In generale, la terapia del cancro - per quanto riguarda l'obiettivo di guarire l'organismo malato, di ridurre l'estensione della malattia ottenendo una regressione parziale, o di rallentarne la progressione - si basa sull'applicazione di una serie di tecniche diverse integrate fra di loro, con protocolli specifici per lo specifico tipo di cancro e per le caratteristiche del paziente, ferma restando la libertà di scelta del paziente fra i diversi approcci possibili e il suo consenso informato al protocollo proposto.
Poiché il cancro colpisce più frequentemente la popolazione anziana, in molti casi la regressione parziale o anche il semplice rallentamento della progressione equivale, in sostanza, alla guarigione completa, in quanto libera il malato dai sintomi di malattia per tutto il suo periodo di vita residua.
Le tecniche utilizzate sono:
- La chirurgia
- La radioterapia
- La chemioterapia
- L'ormonoterapia
- La immunoterapia
- L'ipertermia
- altre tecniche (termodistruzione con radiofrequenze, alcoolizzazione, crioterapia, embolizzazione e chemioembolizzazione), in genere appannaggio della radiologia interventistica.